Poltergaist tree

Mariko mi fissa con aria severa mentre sto leggendo la lettera di commissione di un nuovo lavoro.

Non è un lavoro come gli altri, afferma decisa, con la freddezza che caratterizza il suo temperamento. 

C’è scritto massima urgenza e che avrò bisogno di un team, per portare a termine la rimozione di una grande branca morta in vecchio salice, sul confine di un cimitero. Mariko continua ma non è un cimitero qualsiasi è un cimitero sconsacrato dove due secoli fa seppellivano solo assassini e streghe. Ma stai scherzando vero? Rispondo. No e non è finita l’albero è infestato ma di questo ti parlerà meglio Padre Damien Karras è uno specialista del settore e non è la prima volta che si occupa di casi del genere.

Man mano che ci avviciniamo al luogo il cielo diventa sempre più cupo e quando siamo arrivati stava decisamente piovendo. 

Padre Damien mi aspetta nella chiesetta del paese. Il volto del reverendo è segnato e stanco, mi dice che vorrebbe andare in pensione ma questo ultimo caso non può essere lasciato a se stesso. Dopo una breve camminata sotto la pioggia arriviamo sotto l’albero.

Mai visto un essere così spettrale, decine di sagolini pendevano dalla chioma e fluttuavano sinistramente nel vento. Vede Mister Jeff, questo albero è “INFESTATO”. Segue una pausa di incredulo silenzio da parte mia, si, continua lui è infestato da un poltergaist .

Sarò sincero con lei, continua Padre Damien, molti altri hanno provato e sono caduti nel tentativo e adesso le loro anime sono intrappolate dentro quella porzione di tronco e l’unico modo di liberarle è rimuoverla, liberare l’albero, il cimitero la città da questa maledizione. Abbiamo pensato a lei perché… perché sono il migliore lo interrompo io finendo la frase. No risponde seccamente lui, perché lei è probabilmente l’unico che avrebbe accettato, se non sbaglio ha già avuto a che fare con cose di questo genere o mi sbaglio? Fingo di non capire ma lui mi guarda impassibile e mi ricorda del patto di San Venganza e della mia famosa motosega maledetta, che fu fabbricata dentro l’officina di Johnny Blaze. A questo punto preso dall’imbarazzo guardo a terra e chiedo: Quando si inizia?

Il giorno dopo sono sotto l’albero maledetto, estraggo la sagola e tento il primo lancio, il peso entra nella chioma ma un ramo scatta colpendolo e rispedendolo indietro mandandolo a conficcarsi in profondità accanto al mio piede, farà la fine di tutti le altre sagole che sono incastrate e pendono dalla chioma, capisco che non ho altra scelta devo usare l’archetipo di tutti i sagolini, quello donato alla stirpe degli arboristi, nella notte dei tempi dalla musa o demone che dir si voglia, realizzato con i suoi stessi capelli, non pensavo che mai l’avrei usato ma stare sotto quella chioma, infondeva angoscia e scoraggiamento, sento la muscolatura debole, il respiro pesante, le mani incerte e tremanti, la bocca asciutta. Provo a scolarmi un intera brocca di caffè tutta d’un fiato e tiro avanti. 

Il poltergaistree troneggia difronte a me mostrandomi le punte acuminate dei molteplici rami spezzati. Il vento e la tempesta agitano le stente fronde verdi rimaste. 

Lancio la demoniaca sagola che attraversa la chioma ed un fulmine si abbatte sulla cima facendo esplodere un ramo ma riesco a posizionare la chioma. Salgo metro dopo metro e nelle cavita del tronco, con sgomento ed orrore vedo vorticare spettri di anime teschi che portano ancora il caschetto e che invocano libertà. Ogni ramo che incontro si flette e mi flagella la faccia le orecchie e la pioggia si intensificava, il vento soffia sempre più teso e forte, le nuvole nel cielo corrono veloci evocavano fantasmi che cavalcavano verso l’orizzonte e yppiaeee e yppiiaiooo. Ora è il momento giusto per accendere la famigerata moto- blaze- sega, una fiammata tuonante esce dalla marmitta e la catena comincia subito a girare ad una velocità innaturale, il motore urla odio e vendetta, la sensazione di impugnare questo ibrido fra tecnologia paranormale e antiche maledizioni arriva attraverso le vibrazioni e sale dalle mie braccia fino al cranio, un sorriso sprezzante, folle e si impossessa di me gli occhi sbarrati di, stupore, accanimento e perverso piacere. Arrampicato in equilibrio su un maledetto ramo spezzato malamente ancorato alla maledetta branca, mi faccio largo e arrampico fronte alle fronde esterne, con una mano afferro la bestia urlante e con l’atra mi mantengo in equilibrio sulla corda, passo dopo passo calco il bianco legno, schiarito dal tempo e dalle intemperie. 

Sebbene sia associato a quanto di più dolce
onorevole e sublime
la bianchezza della balena
niente è più terribile di questo colore
una volta separato dal bene
una volta accompagnato al terrore

La bianchezza dello squalo bianco
l’orrida fissità del suo sguardo
che demolisce il coraggio
la fioccosa bianchezza dell’albatro
nelle sue nubi di spirito
la bianchezza dell’albino bianco
e cosa atterrisce dell’aspetto dei morti
se non il pallore
bianco sudario colore?

Ci siamo affondo la catena nel legno, a terra tutti si sono allontanati, le ragazze mi guardano impassibili e immobili sotto la pioggia, Padre Damien prega inginocchiato anche lui sotto lo scroscio della pioggia battente i bambini fuggono, gli anziani spalancano la bocca impietriti e la segatura mista a scintille, viene sparata lontano. Una voce entra nella mia testa, “ non crederai veramente di poterlo fare? Vero? Veroooo? Urla dentro di me . Tu sarai mio come tutti gli altri che sono morti quassù. Lurido maledetto arborista, oggi morirai, lo sai che oggi morirai, sei maledetto, io ti ho maledetto. Mi manca il respiro un dolore, dentro il mio petto nel centro dello sterno, lo sgomento, l’angoscia più profonda, le gambe tremano non sto in equilibrio il cielo diventa rosso sangue ma la moto-blaze- sega alimentata a nox puro continua ad urlare, arrivo a fine corsa del grilletto e i pezzi cominciano a cadere e fracassarsi sulle lapidi, pezzi sempre più grandi, si infrangono al suolo, uno dietro l’altro e d’un tratto vedo le anime intrappolate dentro gli antri del tronco che escono una ad una e si dispongono attorno a me, brillano, i sagolini incagliati con i pesini appesi cadono uno ad uno ma la motosega non ha voglia di fermarsi e continua a urlare come Brian Jhonson in Thunderstruck, la lancio dentro un bidone di acqua santa preventivamente preparato e poi mi lancio giù con un salto scivolando sulla corda con le anime che mi seguono in picchiata fino al suolo per poi cabrare in cielo. La maledizione è finita, sono a terra, in ginocchio stravolto, con lo sguardo fisso nel vuoto. Padre Damien mi raggiunge e mi aiuta a sollevarmi ed a togliermi il mio casco protos, mi sostiene da sotto una spalla e mi porta al coperto, qualcuno ha recuperato la motosega e me la mette lì davanti, mostra i sui denti crudeli e irriverenti lei continua a ridere diabolicamente, senza rimorsi senza pietà.

Fine dell’episodio.

Parola di Jeff Kotenna.

Contrasti

Buona parte dei miei lavori si svolge sulle colline metallifere, una catena di monti boscosi, che si estende da nord-ovest a sud-est, della parte alta della maremma. Ai più questa remota area geografica non dirà nulla ma in realtà è stata un crocevia di storia e cultura e anticamente era rinomata per l’ottima qualità dei suoi metalli custoditi nelle viscere di questi monti. L’ascia di Otzi la mummia del Similaun, rinvenuta in Val Venosta, risalente ad un epoca di oltre cinquemila anni fa, era costituita da rame estratto da queste miniere. Questa storia mi ricorda di quanto noi uomini siamo di natura nomade, di quanto abbiamo bisogno di muoverci di conoscere e di confrontarci, per arricchirci non solo di danaro ma di volti, di storie, di sapori e paesaggi. Paesaggi come quelli che vedo mentre al tramonto scendo da queste sinuose stradine fra gli irti monti boscosi e d’un tratto vedi il mare dorato e le nuvole rosse e arancioni che strappano l’azzurro verso l’isola d’Elba. Contrasti di colori e di situazioni. Amo i contrasti. Amo vivere senza etichettare nessun tipo di lavoro. Ho lavorato nel centro delle capitali, vicino alle tombe di uomini che hanno fatto la storia, ho lavorato a casa di principi, conti e marchesi, senatori degli Stati Uniti d’America ma ho lavorato anche a casa di minatori, piccoli agricoltori, pescatori all’isola di Capraia, marinai a Piombino. Ho lavorato e lavoro in parchi storici e per alberi al lato di un vecchio podere, per una donna anziana addolorata e stanca della vita, che mi ha affidato la cura di un giovane salice, piantato dal figlio defunto, o per la quercia dove la moglie ha adagiato le ceneri del marito. Ascolto storie di proprietari di terreni e boschi e di come hanno fatto a guadagnarsele. C’è dunque un albero che vale più di un altro? Come gli uomini dei tempi di Otzi, viaggio, nomade, da un albero all’altro, da un luogo all’altro, imparo dagli alberi che ritrovo dopo anni e osservo quale effetto hanno avuto i miei interventi. Non mi concedo a tutti e sono selettivo, scelgo chi ama gli alberi, così la volta successiva sarà una persona che ama gli alberi a scegliere me. 

Ovunque mi trovo il rituale è sempre lo stesso, osservo prima l’albero, da terra, gli giro attorno, lo studio in silenzio e intanto il sangue dentro di me accelera il flusso, lo sento scorrere caldo nelle braccia, nel petto, nelle cosce, sento i miei muscoli iniziare a vibrare, lancio la sagola. La corda è fissata su in alto afferro il mio akimbo e salgo in alto spingendo sulle gambe. La tecnica del treeclimbing oggi ha qualcosa di molto simile alla perfezione è diventata essenziale, compatta, si sale, si pendola, si salta e si corre sui rami, istintivamente. Tutto queste sensazioni si ripetono ovunque, su una betulla in Svezia, su un ikori nella Est Coast, su una quercia rossa nell’Ontario o nel leccio a cinque chilometri da casa. Come una bellissima canzone la tecnica acquisita ti accompagna nei viaggi più belli e ti risveglia ricordi, ogni volta che la fai scorrere nelle tue mani, ogni volta che ti lanci appeso ad una corda. Ebbene ogni volta che risalto a bordo del mio vecchio truck, per tornare a casa è proprio come riascoltare quelle vecchie canzoni con le quali siamo cresciuti. In fondo è una vita molto semplice, estremamente semplice e prego e mi impegno affinché rimanga così ma è un patrimonio di cui mi sento custode ed ecco perché amo così tanto insegnare… ma questa è un altra storia.

Un altro giorno come tanti altri

Ormai avevo fatto i soldi, tanti soldi da non sapere nemmeno da che parte iniziare a contarli e se mai lo avessi fatto, forse mi ci sarebbe voluto circa dieci giorni a finire il conto. Avevo perso la motivazione per il mio lavoro, sentivo che tutto era così ordinariamente ciclico, non provavo più  emozioni ad arrampicarmi in alto sulle chiome e compiere evoluzioni acrobatiche per giungere ai rami più lontani e mi detti al vagabondaggio.

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Catene

Regolarmente vivo delle epoche che io chiamo catene, che si accrescono, raggiungono un apice e poi collassano in se stesse. Generalmente le catene, durano a lungo, anche anni. Iniziano prendendo forma su abitudini o azioni che svolgo abitudinariamente, in principio non ne ho coscienza, poi mi rendo conto che sto diventando abile nel compiere un certo tipo di lavoro, o in un modo di relazionarmi con le persone, nel persuaderle.

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Al volante

Lo stereo dell’auto trasmette una vecchia canzone degli anni ottanta che mi riporta alle immagini televisive di Mike Buongiorno che grida allegriaaa. Gli anni ottanta sono stati pervasi da musica commerciale, dall’esplosione di programmi televisivi edulcorati dallo sfarzo più assoluto ma anche da un desiderio, anabolizzato di avventura, dalla musica che all’epoca sfondava nelle hit settimanali…

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E il diavolo donò il sagolino

Quando nella notte dei tempi i primi arboristi cominciarono a salire sugli alberi nacque da subito il problema di come installare direttamente, la corda per salire, nella parte più alta della canopea. Ci fu un grande summit dove ognuno, diceva la sua chi voleva usare delle colombe ma queste non riuscivano a sollevare in volo la corda. Altri proposero delle scimmie ma erano dispettose e spesso usavano la corda per legare gli arboristi e rubargli la merenda.

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Un giorno come tanti

Capitolo 1 Llewella

La coperta mi copre completamente la testa sprofondata nel cuscino, il corpo in posizione fetale cullato dal tepore del mio letto. Apro e richiudo gli occhi, a pause lunghe e pigre ma le note dell’arpa classica di  Llewella mi fanno capire che è il momento di alzarmi, un giorno di lavoro mi aspetta di nuovo e io devo correre incontro al mio dovere come è giusto che ogni uomo faccia ogni volta che il padre eterno fa salire in cielo il sole.

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Ho deciso di…

Ho deciso di fare il treeclimber perché volevo fare il cawboy ma non sapevo dove mettere un cavallo.
Ho deciso fare il treeclimber perché volevo fare il pompiere ma sono miope.
Ho deciso di fare il treeclimber perché per fare la rock star sarei dovuto andare a letto molto tardi e io amo dormire. Perché gli Avengers non prendevano più nessuno in squadra.

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Il primo giorno di lavoro

Avevo appena finito il corso ed ero pieno di buoni propositi. Avevo ripassato tutta la lezione sulla corretta gestione degli alberi, le auxine, le giberelline, la compartimentazione, avevo fatto colazione mentre facevo finta di parlare con Shigo e mi rispondeva pure. Poi la settimana scorsa avevo ritirato io la pensione della nonna, le avevo detto per farle un favore ma poi la spesi quasi tutta da Bambin Sementi confidando nell’Alzheimer. Ci avevo messo due settimane a scegliere l’attrezzatura, stetti sedici ore di fila al telefono a chiedere consigli a tutti gli esperti che mi vennero in mente, finché non mi ritrovai al commissariato con l’accusa di molestie telefoniche.
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E la luce divenne legno

Quando ero piccolo conoscevo un castagno dal tronco cavo nel quale si poteva entrare dentro, il fondo era ricoperto da uno strato di foglie secche e scricchiolanti ma risultavano comunque confortevoli e accoglienti una volta eliminati i ricci. Era un rifugio perfetto, anche se un po’ scontato per giocare a nascondino o per sedersi in cerchio insieme agli altri a gambe incrociate come fossimo stati il consiglio dei guerrieri della tribù dei Chirikaua, capeggiati dal grande Geronimo. Su altri alberi era facile arrampicarcisi, mettendo alla prova il proprio coraggio, l’equilibrio e la forza per tirarsi su e arrivare tra gli apici più alti.

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