Regolarmente vivo delle epoche che io chiamo catene, che si accrescono, raggiungono un apice e poi collassano in se stesse. Generalmente le catene, durano a lungo, anche anni. Iniziano prendendo forma su abitudini o azioni che svolgo abitudinariamente, in principio non ne ho coscienza, poi mi rendo conto che sto diventando abile nel compiere un certo tipo di lavoro, o in un modo di relazionarmi con le persone, nel persuaderle.
Queste epoche sono sempre e comunque caratterizzate da un mio alto livello di energia psichica e fisica, che cresce sempre di più finché non prendono il controllo su di me ed io ne divento succube, divengo schiavo del mio personaggio, che fino ad ora è riuscito ad aprirmi tutte le porte, che possentemente cavalca l’apice dell’onda. Non c’è sport che io abbia praticato che non abbia avuto questo tipo di processo su di me. Non di meno sul mio lavoro, anzi. Gli abbattimenti controllati sono tra le attività più remunerative, si passa giornate a salire a tagliare e far precipitare giù tronchi da quintali, uno dietro l’altro, la catena della motosega gira a tutta velocità e non vorresti che si fermasse mai, prendi feeling con il pericolo e diventi lo Shiva danzante degli alberi. I periodi in cui sento un surplus energetico mi trasformano in una macchia atta a macinare enormi quantità di lavoro, i muscoli mangiano la fatica e da un albero si passa ad un altro, finché mi rendo conto che la catena mi sta bruciando il cervello, mi guardo allo specchio e i miei occhi sono gli stessi di Ned Stark, stanchi e iniettati di sangue, allora capisco che un ciclo è finito, la catena si scioglie, il personaggio diventa un omuncolo, una caricatura di se stesso, provo ironia e imbarazzo per quella spavalderia con cui ho illuso me stesso, con la quale mi sono illuso di essere invincibile, inarrestabile, la fatica definitiva è finalmente arrivata, ascolto il crepitio delle fiamme nel caminetto mentre soffio fuori una boccata di fumo dalla mia pipa. Questa pipa mi fu regalata molti anni fa durante il gelido inverno del 2001. Quell’anno venne un freddo eccezionale ed io mi trasferii per un paio di settimane a Verona, ed ogni giorno andavamo a scalare cascate di ghiaccio. Marco mi introdusse nel mondo degli appigli precari in punta di ramponi e piccozze era arrivato il Dry tooling una tecnica di arrampicata con piccozze e ramponi che non si poneva limiti, si passava dal ghiaccio, alla roccia senza continuità di soluzione. Quell’anno fu un epoca di cambiamenti decisivi nella mia vita, uno dei quali fu di prendere la poco salutistica, abitudine di fumare da quella pipa, che mi fu regalata da Monica, al termine di un tour di scalate. Monica ha un azienda che costruisce pipe artigianali e alla fine di quella settimana di avventure regalò ad ognuno del gruppo una di queste piccole opere di artigianato, come souvenir. Spesso mi lascio guidare dai doni e dalle opportunità della vita per rompere quelle consuetudini che possono diventare deleterie per la salute mentale di una persona, anche se sono abitudini rigidamente salutiste, anzi sopratutto se sono abitudini rigidamente salutiste. Tutto può diventare una catena anche la migliore virtù, da li capii che è meglio vivere un vizio come una virtù anziché subire il vizio di essere virtuosi.
Tutto ciò che ci regala un’emozione ci da una dipendenza, ho riflettuto a lungo su questo tema, quando durante la mia gioventù, alla ricerca ossessiva della libertà, mi attenevo a una rigida disciplina di vita, alimentare, relazionale, psico-fisica. Solitudine, solitudine, solitudine, ecco di cosa siamo fatti e di cosa siamo circondati, anche se noi, vorremmo rimanere nell’ignoranza, piangere insieme, abbracciarci forte, nascondendo il volto nel corpo dell’altro, l’un coll’altro o ridere e ironizzare l’un dell’altro, guardandoci negli occhi, per non scrutare verso l’abisso dello spazio e del tempo, dove la nostra piccola e fragile vita ruota nell’immensità di una spirale galattica. Ma l’uomo è condannato alla conoscenza e la conoscenza porta al sapere, il sapere ci pone di fronte all’abisso, ci impone di seguire la balena bianca
“Bianco sudario colore. Su un cavallo pallido avanza l’apocalisse e pallidi cappucci della pentecoste. Il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo. L’universo vacuo e senza colore ci sta davanti come un lebbroso”.
Caro Herman, ti leggo e ti rileggo ti ascolto e ancora ti riascolto, perché tu insegni che nessun uomo sfugge al fascino misterioso dell’esistenza, ne il baleniere di Nantuket ne il boscaiolo dell’Oregon.
Pensiamo alle catene come qualcosa da trascinare o che ci intrappola ma le catene sono anche parte di ingranaggi inarrestabili che noi stessi mettiamo in moto, per andare avanti e vedere cosa c’è la in fondo o lassù in cima, sono reattori che accendiamo, consci che ci spingeranno lontano da tutto e che quando saremo tornati niente sarà più come prima.
Non andartene docile in quella buona notte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce. Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini Non se ne vanno docili in quella buona notte, I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia, S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono, Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino, Non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire, S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi, Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego. Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce. Dylan Thomas.
Non andartene docile in quella buona notte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce. Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta Perchè dalle loro parole non diramarono fulmini Non se ne vanno docili in quella buona notte, I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia, S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono, Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino, Non se ne vanno docili in quella buona notte. Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire, S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce. E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi, Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego. Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce. Dylan Thomas.